Sono a più di diecimila chilometri da casa, un oceano mi separa dalla mia famiglia.

Da circa due anni lavoro in Messico nel campo della cooperazione internazionale.

Ero a lavoro quando ho sentito le prime notizie sul COVID-19 che iniziava a farsi conoscere in Italia. Con la leggerezza di molti in quei primi giorni ho pensato che tutto sarebbe andato bene, che non c’era molto da preoccuparsi.

I giorni passavano e le notizie aumentavano, e con loro i morti.

Per la prima volta avevo io paura per la mia famiglia. Per mio padre e mia madre che si trovavano così lontani.

Il senso di impotenza è devastante e non ti lascia dormire. Lo stesso senso di impotenza sperimentato per la prima volta dopo il terremoto dell’Aquila. La voglia di fare “qualcosa”, qualsiasi cosa, per aiutare. L’impotenza. La lontananza.

L’empatia. Per la prima volta ho sperimentato quella stessa paura vissuta dai miei genitori in uno dei miei tanti viaggi in Pakistan o in Colombia, causata dall’ignoto e dalla distanza.

I giorni sono passati e anche qui in Messico, il Covid si è impossessato dell’intero Paese. Lentamente ha cambiato la vita di tutti noi e -drammaticamente- ha reso ancora più visibili le differenze sociali già radicate nella società.

E un poco sorrido di fronte alle lamentele dei miei compatrioti in Italia che, tra un video e l’altro, si lamentano di non sapere più che serie Netflix guardare e che torta cucinare.

Un poco sorrido di fronte alle raccomandazioni di governi, e organismi internazionali, che spiegano su internet come lavarsi le mani e come rimanere in casa, sereni. Evitando il burn out.

Come sempre gli ultimi resteranno gli ultimi e il governo (e con lui tutti gli altri) sembrano dimenticare che in Messico circa 44 milioni di persone non hanno accesso all’acqua, quasi 2 milioni di persone non hanno elettricità, forse dimenticano il numero di femminicidi che caratterizzano il Paese (circa 10 donne al giorno vengono uccise, la maggior parte delle volte dallo stesso compagno o marito).

La quarantena ci dimostra in modo spietato il fragile modello sul quale è costruita la nostra società. Cade “il velo di maya” e ci mostra la sua faccia più terribile, evidenziando le enormi differenze sociali del quale si alimenta, e la sua costruzione patriarcale.

Non per niente, mentre il giornale ci raccomanda di “restare a casa” il numero di violenze e femminicidi aumenta.

E non parlo solo del Messico (che l’Italia non si senta assolta!).

Qualche giorno fa ho visto una famiglia con due bambini piccoli, che stavano vivendo in macchina.

Ogni giorno penso a loro, a tutte queste persone alle quali non si rivolge il telegiornale. Penso a chi non ha acqua e si sente ripetere di lavarsi le mani, a tutti coloro che devono uscire di casa comunque per poter mangiare. Alle donne alle quali si ripete di stare in casa, quella casa che per loro è un inferno. Penso alle famiglie delle comunità di Oaxaca e di Chiapas.

Penso ai miei amici e alla mia famiglia. Al privilegio di chi vive in un Paese con un sistema sanitario gratuito, ad esempio.

Ma, alla fine come diceva Tolstoj, “tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Questo mi insegna a non comparare le situazioni ma relativizzarle.

Mi insegna ad essere umile e cosciente della posizione privilegiata in cui mi trovo.

La stessa impotenza che provo per la mia famiglia, lontano in Italia, la provo per le famiglie del Messico.

Non posso cambiare il mondo e questo lo so bene, ma questa frase non può frenarci dal provare. Se in questa situazione di emergenza non si coltiva la solidarietà e l’empatia, allora non avremmo imparato nulla. Non basterà il vaccino per essere salvi.

La cultura, come diceva Gramsci, non è “possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri”.

Allora io spero che ognuno di noi possa riflettere su questo significato di cultura e magari il “post-covid” ci sorprenderà molto più “umani”.

Illustrazione : Luisa Illustra