Jens Krauer

Soltanto oggi, a più di 30 anni, sto davvero prendendo coscienza di cosa mi è stato fatto in passato e di come la mia personalità e le mie relazioni, soprattutto con l’altro sesso, siano state in buona parte modellate in base a ciò.
Avevo 12 anni, forse qualcosa più o qualcosa meno… sicuramente però cominciavo a mostrare qualche caratteristica fisica da “donna”. E questa è stata la mia “colpa”.
I miei genitori avevano una coppia di amici che avevano anche loro dei figli, più o meno dell’età mia e di mio fratello; quindi, ci vedevamo spesso e condividevamo molti momenti di festa e convivialità insieme. Arrivò però un tempo in cui la coppia di amici si sfasciò: divorziarono, lui andò via di casa e lei qualche tempo dopo iniziò una relazione con un suo cugino alla lontana, che era migrato in Svizzera molti anni prima. Per un po’ i miei genitori continuarono a frequentare la casa di T., la donna della coppia che aveva intrapreso questa nuova relazione.
Un pomeriggio ricordo che mia madre portò me e mio fratello a casa di T. , ma lei non c’era. Eravamo soltanto noi bambini insieme ad F., il suo nuovo compagno. Il figlio e la figlia di T., insieme a mio fratello, decisero di andare a portare a spasso il cane di F. fuori casa. Io invece non avevo voglia di uscire perché mi ero messa a giocare ad un videogame al computer. Rimasi così in casa da sola con F.
Ero in salotto, tutta presa dal mio gioco al pc, finché ad un certo punto sentii la presenza di F. alle mie spalle. Ricordo che mise le mani sullo schienale della mia sedia. Sentivo il calore della sua pancia vicino la testa. Sentii infine qualcosa di duro che puntava sulla mia schiena e strusciandosi su me oscillava da destra a sinistra, destra e sinistra… io intanto non stavo più giocando davvero al videogame, ma facevo finta di sì e stavo lì, pietrificata e disgustata, perché nonostante non capissi del tutto cosa stava succedendo sapevo che era sbagliato, che non lo volevo e che avevo paura. Lui mi diceva “che mi ero fatta proprio una ragazza carina” e mi chiedeva se mi piacesse quello che stava facendo, se sentissi quanto lo facevo eccitare. I ricordi ormai sono molto ovattati, ma probabilmente riuscii a dirgli che no, non mi piaceva, e nel frattempo continuavo a cercare di concentrarmi sul videogame. Sarei voluta poter entrare in quello schermo. Era un gioco in cui si doveva costruire un ospedale e poi gestirlo, curando i malati e tenendo conto del budget. Un gioco di merda.
Non ricordo bene come, forse proprio grazie alla mia totale pietrificazione, forse perché i figli di T. con mio fratello ed il cane tornarono in casa, ma alla fine quella cosa puntata sulla mia schiena e tutta la persona attaccata ad essa, se ne andarono, e io potei tornare, anche se non più come prima, ad essere una bambina, per quanto agli sgoccioli della scadenza di questa etichetta.
Ricordo che i giorni dopo questo accaduto guardavo i ragazzi e gli uomini intorno a me, incluso mio padre: mi disgustavano tutti e allo stesso tempo mi facevano paura. Temevo che tutti loro avessero qualcosa da nascondere, che potessero tramutarsi in quella cosa che avevo puntata alla schiena. E mi sentivo in colpa per quella mia femminilità, ancora a malapena accennata, che in qualche modo aveva attratto a sé quell’esperienza. Mi sentivo sporca, avevo paura di lasciarmi andare con i compagni di scuola che mi piacevano, avevo paura quando qualcuno mi piaceva e avevo paura di piacere a lui, di mostrarmi “femmina” e vederlo “maschio”. Paure che solo ora riesco a descrivere: ai tempi si traducevano solo in disagio e voglia di sparire.
Non molto tempo dopo raccontai l’accaduto a mia madre, che esterrefatta, contattò T., ma questa disse che era impossibile e che mi ero inventata tutto. A quel punto mia madre smise di frequentare T. Non so che scusa inventò con mio padre, ma mi chiese di non dire mai niente a lui, altrimenti “sarebbe andato ad ammazzarlo”. Mio padre tutt’oggi non sa nulla.
Col tempo ad ogni modo questo disagio, misto a disgusto e paura, scemarono. Presi qualche cotta e lasciai la porta socchiusa per il mondo maschile, incluso il maschio che è in me. Le relazioni che ho avuto però non sono mai state totalmente ricambiate, da una parte o dall’altra, o comunque non sono mai state relazioni “ufficiali”, con una reale presa d’impegno reciproco.
Durante i primi anni di università mi frequentavo con un ragazzo un po’ più grande di me. Frequentava i centri sociali, era una persona di cultura e stimolante dal punto di vista intellettuale. Non lo amavo, anzi, spesso mi irritava; ma in quel periodo avevo bisogno di essere desiderata e, nonostante lui non volesse impegnarsi in una relazione seria, ci frequentavamo quotidianamente e tra una litigata e l’altra e tra i suoi flirt con altre, passammo un anno abbondante insieme, finché io non incontrai un ragazzo che mi piaceva di più, che mi dava di più… e decisi di troncare quella relazione che nonostante la mia incoscienza, sapevo essere tossica.
La sera che lo lasciai lui venne a casa mia. Io stavo a letto perché non mi sentivo bene. La sera prima ero stata insieme a quel ragazzo che avevo appena conosciuto e lui ci aveva visti. Si mise a letto di fianco a me, nonostante fosse un matrimoniale, aveva scelto proprio di mettersi appiccicato e mi imponeva le sue coccole mentre parlavamo; io gli spiegavo quanto fosse sbagliata la nostra relazione e lui rispondeva con varie attenuanti che non ricordo e ribadiva che lui non se lo aspettava che finisse così di punto in bianco, che lui non lo sapeva che l’ultima volta che avevamo fatto l’amore era stata davvero l’ultima. Non lo avevo mai visto così pressante; sembrava sconvolto, come se gli stesse mancando la terra sotto i piedi e mi stringeva forte. Aveva un volto nuovo; io mi sentivo mortificata per avergli provocato tanta sofferenza, ma non lo volevo più, ero stanca di lui e di me con lui, e allo stesso tempo mi stava facendo paura perché mi sembrava avesse perso il senno. Volevo solo che se ne andasse, quindi quando cominciò ad insistere con la storia che voleva fare l’amore con me per l’ultima volta, perché “a me ci teneva” ecc. , alla fine gli lasciai prendere quello che voleva. I nostri corpi si conoscevano, era facile come cosa alla fine. Infatti non ci volle molto perché io raggiungessi un orgasmo. Ed in quel momento, fui attraversata da tante sensazioni negative, tra senso di colpa, rabbia e disgusto; quindi, scoppiai a piangere e appena lui si staccò e cercò di consolarmi gli dissi di andarsene via. Me ne rimasi finalmente a letto da sola e da lì ricordo poco, a parte il senso di colpa, di sporco e di vuoto, come se a me “fosse quasi proibito il sogno di un amore” (Cyrano, Guccini).
Oggi so cosa mi è successo, anche se ancora non sono a mio agio nel dare un nome a questi atti.
So che gli uomini non sono tutti carnefici, non sono tutti fissati con il sesso e non per tutti le donne sono soltanto oggetti, anzi, molti uomini miei amici e compagni sono empatici, rispettosi e intelligenti, sotto più punti di vista. Spesso alcuni non hanno però il coraggio di dire ai loro compagni di genere che può succedere, anche tra i più acculturati, di calpestare le emozioni e la volontà di un’altra o anche di un altro.
Oggi so che probabilmente è a causa di quel primo trauma, quando sono rimasta pietrificata su quella sedia, se dieci anni dopo non sono stata in grado di dire di “no” a chi mi stava imponendo la sua presenza. O forse non ne sarei stata capace lo stesso, perché nelle situazioni di pericolo le reazioni possibili sono di fuga, di attacco, o di freezing, pietrificazione: e in molti casi la terza opzione è la più conveniente per molti mammiferi, soprattutto femmina.
Oggi so che la persona che ha abusato di me da bambina ha distorto la mia visione delle relazioni con l’altro sesso e ha mortificato la percezione che avevo di me stessa e della mia femminilità. So che tante volte mi sono impegnata in relazioni che non mi facevano bene perché nel profondo a lungo una parte di me riteneva di non meritare l’amore.
Oggi mi riprendo la mia femminilità e lentamente mi riapproprio della mia storia, cercando di fare qualcosa di questa rabbia che rimane, che mi fa serrare le mascelle. Cerco di fare qualcosa con questi traumi, a cui oggi riesco ancora poco a dare un nome, ma so che ci sono stati e sono diventati nonostante tutto un pezzo di me. A volte penso di volermi confrontare con queste persone che mi hanno fatto del male e dirglielo, soprattutto al secondo, che così non si fa, che non si possono sottomettere le persone alla propria volontà e al proprio desiderio. Non so se questo confronto prima o poi avverrà, non so che me ne farò di questa rabbia, che alla fine è energia, e in quanto tale può essere trasformata: magari prendendo la forma di questa storia liberata.